LA MUSICA VIVRÀ PER SEMPRE, È IL SISTEMA CHE MUORE
(articolo pubblicato in versione ridotta su Rock.it il 21/8/20 - leggi qua)
Se si tende la mano verso ciò che piace o interessa, questo non è lavoro.
Vi è lavoro a partire dal momento in cui,
per procurarsi ciò che interessa,
si deve andare verso ciò che non interessa,
fare una deviazione,
passare attraverso degli intermediari.
Nel vero lavoro non c’è ricompensa immediata:
imparare a lavorare è imparare lo sforzo a vuoto (…).
Il concetto di lavoro secondo Simone Weil,
parafrasato da Simone Pétrement,
in La vita di Simone Weil, (p. 91)
Il Virus mi ha salvato la vita. So che potrà sembrare un’affermazione pesante, ma con tutto il rispetto per le vittime, i loro parenti e chi sta tuttora soffrendo delle conseguenze drammatiche di questo enorme avvenimento, non posso negare che per la mia condizione personale i mesi passati mi abbiano costretto a intraprendere una strada per un cambiamento tanto interiore quanto pratico (ossia riscontrabile nella vita quotidiana) che mi ha portato in uno stato di grande equilibrio.
Versione breve (e giornalistica): fino a febbraio 2020 stavo proseguendo il mio romantico mestiere di “musicista” (come da una decina di anni a questa parte), poi è arrivato una pandemia che ha interrotto tutte le attività pubbliche (compreso il tour nazionale del mio gruppo C+C=Maxigross), mi sono così ritrovato senza lavoro, mio cugino mi ha subito accolto nella sua ditta di corrieri in bici qui a Verona, e da marzo campo così, scorrazzando in bicicletta cinque mezze giornate a settimana. Ovviamente in attesa che tutto torni alla “normalità”.
Versione articolata (e sincera): a febbraio 2020 l’inizio di una pandemia ha interrotto la settima data di un mini tour (mini non per scelta personale) dei C+C=Maxigross che ne contava in tutto otto fino a fine febbraio. Otto date per un tour di promozione di un album (formalmente il nostro terzo album di lunga durata, “Deserto”, e sesta uscita contando anche gli ep di breve durata). Dopo febbraio non vi era alcun concerto all’orizzonte. Nessuno ci aveva proposto qualcosa, niente di niente. In quasi dieci anni di attività “professionale” (il primo ep ufficiale e annesso tour nazione risale all’aprile 2011) non ci era capitato mai nulla del genere, men che meno nel pieno di quello che si definisce un periodo “di promozione” (nuovo materiale da lanciare, nuovo tour, e quindi più possibilità per promuoversi, “vendere” concerti ai promoter e circolare in generale). Tutte date in locali medio-piccoli, capienza max 200 persone (che non esclude che siano posti bellissimi e gestiti da persone meravigliose, ma è utile per capire dal punto di vista tecnico e pratico qual è il nostro “valore” per il sistema musicale attuale) dall’affluenza altalenante (qualche bella sorpresa che faceva ben sperare, Bologna e Torino, e buchi clamorosi, nella grande Milano, mentre Roma non pervenuta, etc etc…). Che situazione disastrosa, eh? Ma è successo tutto così all’improvviso? Ma certo che no.
Dopo l’estate 2017, picco “professionale” per il nostro collettivo C+C=Maxigross e bellissima stagione in cui abbiamo raccolto per decine di date il frutto seminato con i precedenti due anni di tour per il nostro secondo album “Fluttarn” (uscito a novembre 2015) raggiungendo cachet a tre zeri che finalmente potevano sostenere dignitosamente una formazione che all’epoca consisteva in sei/sette musicisti e un fonico, ho visto prima leggermente e poi sempre più chiaramente l’inizio di un periodo di decrescita arrivato al suo culmine proprio all’inizio della recente pandemia. Come dicevo fino all’estate del 2017 per noi era stato tutto un crescendo professionale. E come sappiamo bene, soprattutto dopo questa epidemia, quando vedi una linea salire è difficile prevedere quando inizierà a curvarsi. E quando inizia la curva discendente, chissà se sarà un singhiozzante sali e scendi, un morbido e lungo atterraggio o una rovinosa picchiata. Il 2017 fu anche l’anno in cui cominciai a suonare da solo come Tobjah, girai ovunque per l’Italia in treno, in nave e in aereo, e aggiungendo a quei concerti anche quelli che feci con il Miles Cooper Seaton Trio (con Ale Cau) e con Stregoni Network - Verona, la versione cittadina del progetto musicale di Above the tree e Johnny Mox con i migranti dei centri di accoglienza, alla fine di quell’anno sforai i cento concerti (per la precisione 108), che per altri musicisti che girano costantemente non sarà niente di eccezionale, ma personalmente fu un anno incredibile, avventuroso e meraviglioso. Avevo ventinove anni, ero stato in viaggio tra Italia ed Europa per due terzi di quell’anno e sentivo finalmente che avevo trovato una maniera per vivere investendo la mia energia in maniera creativa. Dal punto di vista economico, calcolando che in media per ogni concerto, tolte le spese di viaggio, cibo, e imprevisti, mi portai a casa 100 euro circa a data, fu anche un anno di soddisfazione materiale (ovviamente per i miei standard, perché so bene che quella cifra per i criteri di altri mestieri ed esigenze non sarebbero confrontabili), che rassodò la mia indipendenza economica basata sul frutto della mia creatività, alla pari di una soddisfazione artistica ed umana. Naturalmente la quasi totalità di quei concerti fu in nero, ma su questo ci torniamo dopo.
E dopo quindi che cosa è successo? Negli ultimi mesi del 2017, mentre io e gli altri, eravamo concentrati e focalizzati sullo sviluppo dei vari progetti (stavamo pubblicando il primo ep in italiano dei C+C, Nuova Speranza, uscito a dicembre 2017 e io stavo ultimando i mix del mio primo album solista, Casa Finalmente, che sarebbe uscito pochi mesi dopo, ad aprile 2018) avevamo notato che forse qualcosa stava cambiando nel “mondo musicale italiano”: i gruppi che cantavano in inglese erano praticamente spariti, anche noi avevamo scelto la lingua madre per i motivi che ho già spiegato qui in questo articolo sugli artisti italiani che cantano in inglese, in generale i gruppi erano sempre meno, a parte formazioni ormai storiche e consolidate o sparuti casi spesso tendenti alle sonorità di quel “nuovo cantautorato pop” (o come dir si voglia) che dal 2016 circa ormai si era imposto come la corrente predominante. Ma d’altronde anche noi eravamo in mezzo a forti cambiamenti personali per cui la considerammo come uno dei tanti accadimenti. Non ci sorprese troppo che il tour invernale a supporto dell’ep Nuova Speranza fu abbastanza disastroso dal punto di vista di affluenza. Location di media capienza, cachet decenti per la stagione al chiuso, pubblico scarsissimo e dunque promoter disperati. Avevamo pubblicato delle canzoni, per la prima volta in italiano, con un suono completamente diverso da quello per cui i pochi che ci seguivano ci avevano conosciuto. Il concerto e la formazione con cui suonavamo era completamente diverso. Una sorpresa nella sorpresa. Che a quanto pare non aveva fatto impazzire positivamente l’esiguo pubblico! Non ci demoralizzammo troppo, d’altronde fino ad allora tutto era stato un crescendo, l’energia era tendenzialmente alta e positiva, e bisognava andare avanti come sempre (avevamo superato problemi interni ben più complessi)! Inoltre appena terminato quel tour coi C+C io avevo un’altra avventura da intraprendere: pubblicare il mio primo album solista e partire, prima in apertura al tour teatrale di IOSONOUNCANE e Paolo Angeli, e poi in duo con il mio coinquilino Gigi Noce. Grande entusiasmo, poco tempo per metabolizzare il tutto (tra il tour di “Nuova Speranza” e il tour di “Casa, finalmente” avevamo infilato, giusto per non farmi mancare niente, le registrazioni di quello che poi sarebbe diventato “Deserto”) e voglia di godersi il momento. Solo che a marzo 2018 dovemmo fare i conti (io e il mio booking) con una realtà che solo tre mesi prima, appena terminato il suddetto 2017 ricolmo di concerti e avventure, sarebbe parso uno scenario a dir poco impossibile: mancava un mese all’uscita del mio disco e i concerti si contavano sulle dita di una mano. Io letteralmente non capivo. Gianluca (mio manager e discografico attraverso l’etichetta Trovarobato) era orgoglioso del progetto e credeva in quel disco come il migliore che avesse pubblicato dall’uscita di Die, io letteralmente non mi prendevo una pausa da anni e credevo di aver registrato il disco più pop e diretto che avessi mai fatto. Qualunque fosse il motivo i fatti parlavano chiaro. Perciò me ne feci presto una ragione: pubblicammo il disco, riuscii a fare un tour appena decente (qualche data venne fuori), iniziai ad avere meno soldi e più tempo per farmi nuove domande.
Da allora la discesa fu evidente. I concerti furono sempre meno, sia per il progetto Tobjah che per i C+C. L’accoglienza del pubblico, la sua comprensione e la fiducia da parte dei promoter, legittimamente interessati a portare avanti le loro attività commerciali, furono sempre più esigue. D’altro canto l’equazione è abbastanza elementare: per far funzionare un locale (festival, rassegna, etc…) bisogna avere un pubblico, e dunque per avere un pubblico bisogna chiamare artisti che richiamino pubblico. Con tutte le varianti possibili credo sia abbastanza difficile sfuggire a questa “legge”. A parte le realtà (locali, festival, rassegne etc…) che per scelta e possibilità personali non optino per una proposta artistica che valorizzi artisti meno conosciuti, cioè che non possiedono effettivamente un pubblico, prendendosi direttamente sulle proprie spalle il “rischio” e il “compito” di costruire un seguito di pubblico che viene richiamato dal rapporto di fiducia con la loro proposta, qualunque essa sia. Ma d’altronde queste realtà sono sempre state rare, al limite del mecenatismo. Infatti spesso si possono permettere di non seguire le “regole del mercato” proprio perché non ne hanno bisogno, ossia trovano i soldi che coprono eventuali buchi causati da una sera (o un’intera stagione) “sfortunata” in termini di affluenza grazie a finanziamenti esterni (che siano privati o statali cambia poco…).
Questa “realtà” ci servì a realizzare definitivamente che i nostri interessi erano altri rispetto alla soddisfazione e il riconoscimento del sistema, che alla fine, come la maggior parte dei sistemi occidentali, si basano sul proprio valore economico. Secondo questo sistema solo avendo un certo valore commerciale potevamo fare concerti e portare avanti il nostro progetto. E noi non ci saremmo di certo fermati perché non “valevamo” abbastanza per quel sistema.
Man mano che io concludevo il mio tour solista e coi C+C ultimavamo l’album Deserto capimmo che era arrivato il momento di ripartire dalla nostra difficile città, Verona, e la sua gente. Ripartire dalla gente che come noi non accetta di essere accomunata all’immaginario (ahimé vivissimo) bigotto, razzista e destrorso. Questo era il nostro nuovo inizio. Una nuova musica, nuove canzoni, nuove atmosfere e un nuovo progetto, che battezzammo Deserto per Verona. Era solo un anno fa e mi pare ne siano passati dieci. Quaranta e passa concerti in tutto il territorio locale, cittadino e provinciale, da botteghe storiche, luoghi pubblici come la biblioteca civica, cime di monti Lessini e sulle barche in mezzo al Lago di Garda. Fu una visione che come tante idee divenne realtà. E solo a ripensare ai dubbi che avevamo quando stavamo pianificando questo progetto (nato da uno spunto di Gianluca Giusti ancora nel settembre 2018 quando dovevamo terminare i mix del disco…) ora che tutto è stato realizzato gioiosamente pare una bazzecola (nonostante le enormi energie investite e i vari casini annessi e connessi, interni ed esterni, come sempre).
Realizzata quest’avventura svoltasi nell’estate del 2019 con l’autunno ci appropinquavamo dunque a pubblicare finalmente il nostro terzo album Deserto, frutto di due anni di immani fatiche che spero di non dover mai raccontare. Deserto uscì a fine novembre 2019. Dopo una parentesi del suddetto progetto cittadino che a nostro avviso aveva però, in senso analogico, un messaggio universale, e quindi comprensibile ed applicabile a tutta la nazione, lo scenario “nazionale” che ci accolse fu quello che ho descritto all’inizio di questo testo. Otto concerti fissati per il 2020, tutti nel mese di febbraio. Poi è arrivata la pandemia ed eccomi qui, a scrivere nella sala di casa mia dove registriamo e proviamo, in una calorosa ma godibilissima domenica di luglio, mentre le campane di una chiesa di Veronetta segnalano forse qualche momento specifico che non conosco, essendo le 17:45.
Domani alle 12:30 attacco il turno mattutino di consegne in bici in giro per il centro di Verona, torno a casa un paio di ore dopo, pranzo, e per le 16 circa riprendo per un altro paio d’ore. Tutto il resto del tempo lo investo, prevalentemente, in Musica. Non ho mai prodotto (composto, suonato, registrato) così tanta musica in un periodo così breve prima d’ora. Ma soprattutto era da troppo tempo che non producevo musica senza obbiettivi altri se non quello di divertirmi e basta. Senza scadenze e secondi fini. Senza calcoli e esigenze altrui da soddisfare. Senza distrazioni e stress causati da tutti questi paletti, spesso autoimposti.
Le vicissitudini artistiche e “professionali” degli ultimi tre anni, qui sopra descritte, ci hanno costretto a fare i conti con un mondo che aveva iniziato a mostrare evidenti segni di collasso già da tempo. Ma come sappiamo bene sulla nostra pelle finché il sano non si ammala fatica a capire la malattia (e dunque il malato). Anche noi abbiamo goduto la nostra corsa finché abbiamo potuto, posticipando a un futuro indefinito il momento in cui avremmo provato ad affrontare molti degli aspetti dubbiosi che hanno fatto parte della cosiddetta “normalità” interrotta pochi mesi fa dalla pandemia. Per esempio la tanto dibattuta questione delle entrate economiche dei concerti degli artisti di fascia medio-bassa (da circa mille euro in giù). Ma d’altronde quando ai concerti prendi delle cifre già basse in nero chi te lo fa fare di esigere di incassare in regola versandone in contributi la metà? Men che meno quando non ti viene neanche proposto di scegliere. Questo è la realtà dove ci siamo mossi per dieci anni circa di “mestiere”, senza voler dare giudizio, anzi. Ci prendiamo eccome la responsabilità di aver accettato, e spesso richiesto questo trattamento, non vedendo il motivo di richiedere dell’altro. Trasportiamo questo scenario di “vita normale” da musicista pre-pandemia, al momento presente e appena passato di emergenza. Quanti bonus emergenza, io come i miei compagni di banda, abbiamo potuto richiedere? Nessuno naturalmente. Anche provando a richiedere la cassa integrazione attraverso la cooperativa dove siamo iscritti con le cifre che potremmo ottenere (ma che comunque ad oggi non sono mai state neanche confermate) forse ci mangiamo una pizza (ognuno paga per sè eh…), considerando i pochissimi concerti in regola effettuati ogni anno. Insomma, questo è un esempio semplice e diretto che credo funzioni bene per descrivere il recente passato e il conseguente presente. Ed ecco dunque perché mi piacerebbe che almeno si provasse a preparare il terreno per un futuro diverso.
In questi mesi per me di vita nuova, in cui le notizie del mondo qui fuori sono passate dal mostrare carroarmati come carri funebri fino a bar stracolmi ad una velocità spaventosa, rendendo l’assurdità palpabile di ciò che abbiamo appena vissuto come un brutto sogno che tutti vogliono dimenticare il più in fretta possibile, ho sentito un rumore per me sempre più assordante e incessante provenire dal mondo dell’arte, della musica, della creatività. La prima metà di marzo ho sentito e letto di tutto, ho provato a tenere d’occhio ciò che avveniva nelle prime settimane di sgomento in cui anch’io, prima di trovare la mia salvezza in questo lavoro part-time, mi ritrovavo completamente inerme e stupito, incapace di accettare e subire quello che stava succedendo. Ho visto che sono proliferate a dismisura dirette streaming di concerti che spero abbiamo fatto compagnia a chi ne aveva bisogno, ho visto artisti e addetti al settore dello spettacolo protestare contro lo stato per non essere presi in considerazione decentemente dalle iniziative di sostegno per l’emergenza, sensibilizzando il pubblico che non è a conoscenza di questa situazione. Ho visto polemiche di ogni tipo, compreso il grande “dilemma” (?) su chi si può veramente definire musicista: chi si può definire tale e secondo quale criterio? Il fatto che le sue entrate economiche non siano scaturite interamente da lavori di ambito “musicale” lo rendono un musicista part-time, e quindi di serie b? E altre assurde polemiche del genere. Ho scoperto un bando per un bonus emergenza, quello del Nuovo Imaie, l’unico per cui forse avrei potuto fare richiesta (e magari ottenerla), dieci giorni dopo il termine ultimo per iscriversi gratuitamente all’Imaie (se non l’avete fatto fatelo, musicisti). L’ho scoperto navigando da solo nella rete. Nessun collega, amico musicista, rappresentante delle realtà con cui ho lavorato nell’ambito musicale, si è preso la briga di inviare un messaggino, una mail a me come a tutti i propri contatti contenente un semplice link. Nessuno. Nonostante poi abbia scoperto che in molti ne erano effettivamente a conoscenza e ne hanno pure fatto richiesta. Per la cronaca il bando è stato attivo per due mesi con ben due possibile scadenze per le richieste, a fine aprile e a fine giugno. Questa mancanza di solidarietà e semplice dialogo tra chi dovrebbe essere “sulla stessa barca”, soprattutto in un momento così grave ed epocale, inizialmente mi ha fatto molta tristezza, e poi ad una seconda analisi mi ha confermato molte di queste riflessioni. Non esiste alcuna categoria, solidarietà e riflessione che accomuna artisti e amanti dell’arte.
Questi sono stati i rumori che ho sentito in questi mesi, all’inizio assordanti, e poi sempre più lontani ed indefiniti, come la sirena di ambulanza che si propaga in lontananza proprio ora. Ormai accedo ai “cosiddetti” social saltuariamente, qualche volta alla settimana, un po’ per inerzia un po’ per vedere se effettivamente qualche contatto che non ha il mio telefono o la mia mail mi ha scritto lì. Ma non avere un obbligo professionale che mi obbliga a consultarli e ad aggiornarli costantemente è una delle grandi libertà che credo di avere raggiunto dopo dieci anni di rapporti conflittuali con questi mezzi, che inizialmente sembrarono (e nel mio caso furono, seppur per pochissimo) un effettivo mezzo democratico per far circolare i propri progetti, e ora sono diventati esclusivamente un mostruosa macchina economica che ruba tempo all’utente “disinteressato” e obbliga l’utente “interessato”, ossia chi lavora anche attraverso i social (in ogni ambito, dal manager di un industria di crackers al clarinettista jazz), a investirvi denaro, tempo ed energie preziose che potrebbero essere spese in tantissimo altro, di benefico, duraturo, onesto e utile anche in termini pratici e materiali. Questo è il mio punto di vista naturalmente.
Quando questo rumore iniziava ad affievolirsi un giorno sono incappato in un documentario sul leggendario Damo Suzuki, cantante giapponese conosciuto da chiunque abbia a che fare in minima parte con il pop rock (almeno lo spero) per esser stato parte del gruppo tedesco Can nella prima metà degli anni settanta, ossia il momento creativo per cui sono entrati nella storia della cultura pop mondiale. I tre album (e svariato altro materiale extra) che Damo e gli altri quattro tedeschissimi Can registrarono assieme rimangono tutt’ora dei manufatti artistici sospesi nel tempo, irripetibili, indefinibili e incomprensibili, come solo i Capolavori riescono a fare. In questo documentario un regista italiano ha seguito Damo nei suoi pellegrinaggi musicali in giro per il mondo per una decina di anni (tra il 2000 e il 2010 circa), portando in giro nient’altro che se stesso e la sua voce, incontrando gruppi di musicisti estemporanei, riuniti esclusivamente per l’occasione, per performance uniche che si esauriscono nel giro di qualche ora, di fronte a un pubblico, all’interno di contesti più o meno classici (locali, festival, gallerie d’arte…). A un certo punto, in mezzo a tutti questi stimoli interessantissimi e tutte queste avventure artistiche che mi facevano voglia di ritornare nel Mondo con uno Spirito nuovo, Damo disse una cosa semplicissima che mi pietrificò: “La Musica non morirà mai, perché la Musica è Natura. E la Natura non morirà mai.”.
Quando sentii quelle parole provenire da un signore di sessantanni che da senzatetto a zonzo per l’Europa si è ritrovato a cantare di fronte a una band che fino a poche ore prima non conosceva (letteralmente dal pomeriggio alla sera, come la famosa storia racconta), cambiando la storia della cultura Pop, fuggendo da ciò che lui chiama “business” tre anni dopo, ricomparendo decenni dopo, e tornando a fare Musica (tuttoggi, salute permettendo) in maniera libera, pienamente creativa e vivida, scollegato finalmente dal sistema classico da cui era scappato, scoppiai a piangere.
In tutti questi mesi di sconforto e pressione sociale causate (non solo) dalla pandemia, in tutti questi anni di discussioni con il manager, il booking e l’etichetta, i concerti che non saltavano fuori, il pubblico che non viene e non ti ascolta più, il promoter che non è contento e dice che fai musica triste, le recensioni che sono il copia e incolla del comunicato, i festival che vogliono qualcosa che abbia più follower, la fatica e il senso da trovare per andare in Puglia da Verona per 400 euro e dunque attaccarci altre date tappabuco (un esempio qualsiasi), le playlist di Spotify dove sperare di finire, per non parlare di tutte le conseguenti tensioni personali e interne al gruppo, che altro non è che una relazione sentimentale a più persone, diluite in anni di vicissitudini mi avevano molto semplicemente fatto mettere da parte la cosa più importante: la Musica.
Dov’era finita la Musica? Cos’è la Musica? In tutto questo rumore ho sentito parlare di tutto, lamentarsi di tutto, protestare, proporre, e tutte le variegate situazioni pocanzi descritte. Ma esse sono Musica? Come la intende Damo?
Come Damo credo che la Musica sia il Suono della Natura, che gli esseri umani, sin dalla sua origine tentano di imitare, di riprodurre, di fare loro e sviluppare. Il canto degli uccelli, certo. Ma anche il fruscio del vento tra i cespugli di mirto, lo scroscio di un ruscello in Lessinia e il rombo frastornante di un temporale estivo. Niente di più e niente di meno, semplicemente il Tutto. Facendo un’analogia, neanche tanto forzata credo, con la situazione mondiale attuale, negli ultimi mesi il mondo occidentale contemporaneo ha avuto un terribile assaggio di cosa comporti l’allontanamento che sta avvenendo da secoli dell’uomo con la Natura. Più ci si allontana da essa, più la si dimentica, la si violenta, la si distrugge, la si sfrutta e la si umilia, più il disastro è dietro l’angolo. Anzi, abbiamo già girato l’angolo. E quello che stiamo vedendo fa molta paura.
Ritornando dunque alla Musica credo che quello per cui io mi sia preoccupato negli ultimi anni sia stato il Sistema della musica, ciò che l’Uomo ha costruito attorno alla Musica. Un sistema che mi fa preoccupare di non finire in una playlist di tendenza di Spotify. Un sistema che proprio perché non finisco in una playlist di tendenza di Spotify mi fa credere che la mia musica non vada bene, in assoluto. Un sistema che se la mia musica non finisce su una playlist di Spotify fa sì che io faccia molta fatica a fare concerti, perché il promoter che organizza concerti, a cui il mio booking, ossia l’agenzia che si occupa di vendere i miei concerti, mi ha proposto, guarda la suddetta playlist per fissare i concerti. Giustamente si può liquidare questo ragionamento dicendo che la musica che in questo caso io e il mio gruppo facciamo non ha potenziale commerciale, non è di interesse per la maggior parte della gente, e dunque bisogna fare pace con questa situazione e prenderne atto. Ma siamo sicuri che sia così semplice? E siamo sicuri che sia giusto così? Siamo sicuri che questo sistema “musicale” stia funzionando? Reggerà anche (a medio termine intendo) per i pochissimi artisti che quest’estate 2020 riescono a fare concerti perché hanno un pubblico solido e fedele che garantisce la sostenibilità del loro tour nonostante i mezzi e le capienze delle location all’aperto ridotte?
Siamo sicuri che la protesta degli addetti al settore dello spettacolo, chiamata LA MUSICA CHE GIRA, se raggiungerà i propri obiettivi (trovate qui il programma) cambierà la situazione che ho descritto qui sopra? Specificando che io personalmente, come ho raccontato all’inizio, non sono nella posizione burocratica e fiscale per poter richiedere il riconoscimento legale a cui mirano gli obiettivi del loro programma. Mentre probabilmente chi lavora al mio booking, al mio ufficio stampa, al mixer dei locali in cui suono vi rientrerà.
Tutte queste proteste e queste iniziative, come LA MUSICA CHE GIRA o la manifestazione delle maestranze dello spettacolo all’apertura della ridottissima stagione dell’Arena di Verona proprio ieri pomeriggio, si muovono al grido de “LA MUSICA È UN LAVORO”. Concordo, appoggio e capisco bene naturalmente. E sono grato e lieto che questi lavoratori stiano lottando per i loro diritti. Ma la domanda che mi pongo, e pongo anche a loro, è: siamo sicuri che ritenere la Musica, l’Arte in genere, un lavoro sia il giusto punto di partenza o punto di arrivo in un sistema del genere? E lo dico con il massimo rispetto, quando anch’io, come voi, ho perso questo lavoro. Semplicemente in questi anni il dubbio, delusione e frustrazione dopo frustrazione, si è fatto sempre più insistente: non è forse una battaglia persa in partenza cercare di considerare la Musica e l’Arte un lavoro in un sistema consumista, capitalista, razzista, maschilista, spietato e tutte le peggiori conseguenze di questo stile di vita che mostra le sue estreme (e ahimè vicinissime conseguenze) in quello che vediamo avvenire ormai tutti giorni negli U.S.A? Vogliamo che la Musica faccia parte di quel sistema? Siamo sicuri che aspirare ad avere ed esigere soldi, bonus e sostegni dallo stato sia la soluzione ai nostri problemi di artisti? Quando all’inizio della pandemia la Germania ha elargito 5000 euro da un giorno all’altro nei contocorrenti dei possessori di partita IVA (confermato da amici che vivono a Berlino, come sarà capitato a molti) all’inizio li ho invidiati. Ho maledetto il nostro stato “arretrato” e ho ammirato la velocità e prontezza della Germania. Poi pian piano, mentre queste riflessioni si insinuavano dentro di me e i rumori erano sempre più assordanti, lo scenario di fare affidamento a un sistema (in questo caso lo stato tedesco) per proseguire un percorso artistico indipendente e di sviluppo mi è sembrato dubbioso e pure rischioso. Non tanto per questioni etiche o di indipendenza (“Non aiutatemi, me la devo cavare da solo!”) ma più che altro perché credo sia quella la soluzione: il Mondo ideale dove l’Arte e la Musica sono parte integrante, sana e libera del nostro quotidiano, come i boschi e i fiumi non è quello del sistema attuale che come ti può fornire 5000 euro da un giorno all’altro ti può dimenticare il giorno dopo, perché non vali più abbastanza per i “suoi” standard.
Qualche sera parlavo con Pippo, bassista C+C, di tutte queste questioni, e mi ha raccontato che parlando con uno storico del teatro ha scoperto che il lavoro del teatrante ha attraversato numerosi cambiamenti nelle varie epoche, e uno degli aspetti che più lo ha colpito è che il teatrante non è sempre stato riconosciuto come lavoro “professionista”. O meglio, in base all’epoca, ci sono stati momenti della storia in cui fare teatro era un mestiere come un altro, in altre epoche non lo era assolutamente (vedi la Commedia dell’Arte nel 1600). Eppure il Teatro, sin da quando abbiamo memoria, sia in oriente che in occidente, è l’Arte con cui gli esseri umani hanno cercato di trasmettere emozioni e insegnamenti attraverso la rappresentazione di vicende.
Alioune Slysajah, amico e musicista, cantore e spettacolare suonatore di kamalen’goni con cui ho la fortuna di collaborare da un po’ di anni, nel tour che facemmo assieme nel 2017 mi raccontò che nella sua terra di origine, la regione della Casamance nel sud del Senegal (tra Gambia e Guinea Bissau), il sistema musicale funziona in una maniera a mio avviso molto interessante: i musicisti si organizzano per suonare nella festa di un villaggio che li ricompensa con vitto, alloggio, doni e/o compensi monetari, poi alla festa naturalmente accorrono anche gli abitanti dei villaggi confinanti, che a loro volta invitano i musicisti alla loro festa di paese, e così via, di villaggio in villaggio. Potenzialmente questo circolo è infinito, come mi raccontava Alioune: loro rimasero in giro, o meglio in tour, per sei mesi, poi lui decise di rimanere fermo per un po’ in un villaggio dove si trovò particolarmente bene... Ma avrebbe potuto continuare per molto tempo!
Questa storia mi rimase impressa, in quanto rappresenta uno dei tanti possibili sistemi legati al mondo della musica da cui si possono prendere spunti in giro per il Mondo.
Anche scoprire che nella costa nord ovest dell’Africa, i musicisti fanno parte di una antichissima casta (riconoscibile dai cognomi, come i celebri Diabaté e Sissoko) che come tutti i lavori artigiani nella loro cultura, hanno un valore e un riconoscimento molto importante da parte della loro società. Il concetto di casta mi è sempre parso incompatibile col mio modo di vedere le cose, ma non conosco nulla della loro cultura perciò rimane per me decisamente interessante sapere che in una antica società sopravvissuta alla contemporaneità resista il concetto del ruolo di musicista e artista tanto quanto quello del panettiere o del falegname.
In parallelo agli scenari alternativi appena descritti vi è la realtà in cui sono vissuto fino a pochi mesi fa. In cui accettavo che in tutta la catena del sistema economico in cui ero inserito io ero l’unico che alla fine non viveva di quel mestiere: dall’ufficio stampa, al distributore dei dischi, passando all’editore fino alla Siae, dal fonico che registra il disco fino alla stampatore dei vinili, dal promoter che ti organizza il concerto in cui al bancone del bar ci sono baristi, al banco del mixer fonici, al booking che ti ha venduto il concerto al promoter, e tutte le altre maestranze connesse e annesse. Alla fine, su quel palco c’eravamo anche noi. E ho dovuto pure sentirmi dire dai miei più stretti collaboratori che non potevamo capire lo stress e la posizione di chi è addetto allo spettacolo “perché voi avete comunque la soddisfazione personale di realizzare la vostra creatività”.
Credo che questo ideale occidentale dell’artista come personaggio romantico e maledetto, in balia delle sue pulsioni creative, sia oltre che datato, un luogo comune occidentale e moderno che continua a fare danni, come l’affermazione infelice qui sopra descrittavi.
Direste mai a un panettiere che vi fa notare che la farina che gli vendete è troppo cara e non gli permette di vivere dignitosamente che non deve lamentarsi poiché il suo mestiere comprende anche l’inquantificabile soddisfazione di realizzare il proprio pane come desidera?
Se invece il panettiere e il venditore di farina prendessero entrambi a cuore la questione del pane e lo rendessero sempre più buono, e cambiassero la percezione che ha la gente del pane ne guadagnerebbero entrambi. Dovrebbero impegnarsi dunque a cambiare il sistema, ma lo sforzo porterebbe a un sistema virtuoso, che donerebbe benefici ai produttori, ai consumatori e al pane stesso.
I tempi che intravedo per la Musica e l’Arte, limitandomi all’Italia, mi paiono decisamente bui. E sinceramente lo dico con enorme dispiacere, ma anche con la certezza che senza la tabula rasa della pandemia questa discesa sarebbe stata ancora lunga, inesorabile e agonizzante. Adesso invece, siamo costretti a prendere due strade: provare a rianimare la carcassa martoriata e così ridotta da tutto quello che è successo fino ad oggi o cogliere l’occasione per sgomberare la mente, abbandonare il peso delle vecchie logoranti abitudini, prendersi il proprio tempo per capire veramente cosa si vuole, e guardare verso nuovi orizzonti con degli occhi diversi.
Mi è difficile pensare di non ripartire da zero, cancellando tutto ciò che è stato costruito e tenuto in piedi negli ultimi anni, soprattutto perché è il sistema stesso, in cui ci troviamo, che lo sta già facendo. Lo faceva prima, svalutando e svilendo il sistema artistico-culturale (“Ma tu che mestiere fai? Sì, ok il musicista, ma di cosa campi?” e tutte le varianti dell’ufficialissimo e diffusissimo “Con la cultura non si mangia”.), tagliando i fondi per l’istruzione dopo quelli per la cultura (ossia la legge italiana dice che la cultura e l’istruzione non meritano fondi), complicando permessi per organizzare eventi e libertà artistiche. Lo fa oggi rendendo “quasi” impossibile la realizzazione di eventi culturali, a parte gli organizzatori non siano strutture grandi ed economicamente molto solide, ben oltre la media, o siano piccoli imprenditori che si prendono il rischio, puntando a micro eventi con budget minimi.
Un lavoratore del settore teatrale mi confermava che nel loro settore il cambiamento è evidentemente epocale, senza precedenti: saltata la stagione estiva 2020 e non potendo confermare la prossima stagione al chiuso dell’autunno-inverno molti tecnici, che per motivi personali (basta avere una famiglia da mantenere, per fare un esempio) non possono permettersi quasi un altro anno di lavoro saltuario e risicato, stanno cambiando mestiere. Questo cambiamente drammatico naturalmente sta succedendo in tutti i settori, ma limitandoci a quello culturale è evidente che quando forse si ripartirà ad avere le programmazioni delle stagioni teatrali e concertistiche (le voci che girano nell’ambito dicono e sperano con la primavera 2021) il settore sarà decimato. Dai tecnici agli artisti stessi. Le produzioni saranno più piccoline per abbattere i costi. E dunque ci sarà meno lavoro. Naturalmente questo non vale, come sempre, per le realtà grosse. Questa sarà sempre una certezza. Entrambe le mie nonne, che da bimbe hanno vissuto la seconda guerra mondiale, mi hanno detto che questo avvenimento estremo della pandemia le ha ricordato l’atmosfera della guerra. Ma soprattutto questo avvenimento, come fece la guerra, intensifica e amplifica i divari sociali, rendendo il povero più povero e il ricco più ricco.
Questo evento non solo ha intensificato i divari sociali, ma credo abbia gravemente allontanato le persone dal valore dell’Arte (e quindi della Musica), come non avevo visto mai.
Leggendo i diari pubblicati sul sito di Quodlibet da Agamben durante la pandemia, (tralasciando le polemiche che si sono concentrate sull’aspetto superficiale e provocatorio delle sue considerazioni, focalizzandosi solo sulla minimizzazione dell’emergenza come se Agamben fosse un complottista da fake news), non potevo accorgermi che lo scenario che stava descrivendo era esattamente quello che stavo vivendo, sia come cittadino che come artista: nel momento in cui i partecipanti della comunità (i cittadini) hanno accettato senza sindacare il blocco totale delle proprie libertà in nome di una sicurezza “alta” (non entriamo nel merito del giusto e sbagliato), hanno delegato (ben volentieri secondo la sua tesi) ai rappresentanti dello stato, che si affidano a loro volta ai rappresentanti della scienza, scelte che non vogliono e non hanno intenzione di mettere in discussione, capire, e se mai, dopo un’analisi ragionata, accettare. Questo naturalmente crea un precedente gravissimo per la nostra libertà e il nostro arbitrio, perché se consideriamo ora il fatto specifico del blocco dei cittadini (la cosiddetta “quarantena” o “lock down”) come fondamentale e necessario per arginare l’epidemia, durante i drammatici mesi di marzo e aprile, (e tralasciamo invece per esempio, un esempio su tutti, il silenzio da parte dello stato e dunque da parte dei media nazionali in merito alle fabbriche tenute aperte per non fermare la produzione dove il virus ha continuato a diffondersi), siamo invece sicuri che l’accanimento avvenuto a partire dalla cosiddetta “riapertura” del 18 maggio verso ogni evento e iniziativa culturale sia corretto se paragonato a come vengono trattate tutte le altre attività commerciali legate alla ristorazione? Il messaggio che è passato ai cittadini, anche in questo caso accettato senza alcuna messa in discussione, è che è normale e giusto andare al bar, al ristorante, al supermercato con le giuste precauzioni (ognuno poi sa cosa vede ogni giorno al bancone del bar), mentre è impensabile, fuori luogo e rischioso, incontrarsi per condividere Arte e Musica. Solo pochi eventi risicati, seduti a distanza di sicurezza, dove non ci si può muovere dalla propria postazione (aiuto, si chiama ballare!) e poi a fine spettacolo si viene accompagnati dagli appositi addetti alle uscite senza accalcamenti. Poi usciti dall’area concerti si può andare tutti tranquillamente nell’area bar (dello stesso evento), appoggiarsi al bancone, tutti vicini, abbassare la mascherina, bersi la birra e chiacchierare. Questa scena mi è stata descritta tale e quale da un fonico di uno dei pochi concerti estivi a Bologna avvenuto qualche giorno fa. Direi che è esemplificativa di qual’è l’immagine e la sensazione che sta venendo trasmessa alla gente in questa stagione. Se il settore culturale arrancava prima della pandemia ed era visto come qualcosa di superfluo e non fondamentale nella percezione del cittadino italiano credo che ora, dopo tutto quello che stiamo vivendo, faticherà molto sia a ritrovare un equilibrio interno sia a ritrovare una posizione dignitosa nella percezione pubblica.
Ho sentito dire che la gente ha ascoltato molta musica in streaming durante la quarantena come se fosse qualcosa di positivo per i musicisti. Certo, ormai la fruizione cosiddetta “liquida” è diventata la maniera principale di ascoltare musica, ma siamo sicuri che sia positivo? Positivo per chi soprattutto? Per l’artista no di certo, considerando le cifre irrisorie, a mio avviso offensive e svilenti, che tutti i servizi (da quelli celebri a quelli più piccoli, Spotify in primis) pagano agli artisti. Anche in questo caso, come Amazon per le librerie e tutte le piccole attività, o sei con loro (alle loro regole) o sei fuori dal mercato. La solita vecchia storia. Per fortuna che esiste Bandcamp, che oltre ad essere da anni il più funzionale e pratico intermediario diretto tra l’artista e l’ascoltatore, in questo 2020 ha dimostrato con iniziative di sostegno per gli artisti (lasciando la propria percentuale sugli acquisti ogni primo venerdì del mese interamente agli artisti) e per i movimenti contro il razzismo (come Black Lives Matter) di avere veramente a cuore la Musica, chi la fa e chi l’ascolta. Speriamo che resistano anche loro alla tentazione di diventare un’industria come le altre.
Di giorno quando in bici porto in giro spese, prodotti farmaceutici di casa in casa, di signora in signora, guardo le strade piene del centro come se fosse un’estate qualsiasi, le stesse strade che tre mesi fa erano completamente deserte. Stranito ma leggero, penso al peso che mi sono tolto non dovendo più sperare di avere un tour decente, che il tal promoter mi faccia suonare nonostante abbia poche views, sperare che la nostra etichetta sia carica come noi dell’ultima canzone, dell’ultima idea, dell’ultimo progetto pazzo che abbiamo ideato. Qualcuno in piena pandemia (qui in Europa, considerando quanto si stia ancora diffondendo in America e in Oriente per esempio) qualche mese fa ha detto: “non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”. E io questa frase me la sono stampata in testa. Gli amici mi chiedono quando torneremo a suonare in giro. Non ne ho idea. Di suonare alle vecchie condizioni non mi passa per la testa. Di suonare a cachet ribassato “perché c’è la crisi”, di suonare ancora in nero, completamente non riconosciuti, come se fossimo dei malviventi, in una società che ci spinge e relega ad essere tali, men che meno.
Le artiste e gli artisti, le pensatrici ed i pensatori, le donne e gli uomini che mi ispirano, che mi danno speranza, mi hanno sempre spinto a pormi le mie domande, quasi sempre scomode e dolorose. Quasi sempre queste domande mi hanno fatto capire che la risposta che qualcun’altro mi aveva dato non valeva niente per me. Era stata confezionata per soddisfare la tendenza dell’uomo a ricercare qualcuno e qualcosa che pensi al proprio posto. Ma queste persone “illuminate” si sono battute per farmi capire che la mia risposta si trova unicamente dentro di me, e nessun altro mai potrà permettersi di formulare una risposta che valga per me. Queste persone hanno creato un Mondo Nuovo dove prima il mondo in cui si trovavano li umiliava, li sfruttava, li sottometteva. Eppure queste persone hanno avuto la forza della visione, per vedere oltre il muro che gli era stato costruito attorno. Hanno visto cose che hanno cercato, hanno raggiunto e ci hanno donato, nonostante noi ora le diamo per scontate, perché ci siamo comodamente abituati, ma che invece sono frutto di enorme dolore, lotta, energia, autocritica e coraggio.
Il fatto che io sia un ragazzo bianco, etero, con un lavoro, una famiglia solida alle spalle in una società occidentale benestante mi rende senz’altro un privilegiato. Ma soprattutto penso che mi obblighi moralmente a prendermi più responsabilità di chi è meno fortunato di me.
La Musica è la domanda e la risposta. È il sistema che muore, e poi se ne fa un altro.
La Musica, come dice Damo, non morirà mai, perché la Musica è Natura, e la Natura non si può fermare.
Veronetta, 26 luglio 2020